Per
quanti sacrifici
l’Italia e gli altri Paesi mediterranei, compresa la Francia, potranno fare i
risultati saranno sempre inferiori alle aspettative. Possiamo aumentare la produttività. Rendere flessibile
il mercato del lavoro. Fare pulizia nelle banche, stornando dai loro
bilanci le perdite per crediti insoluti. Comprimere la pressione fiscale,
contando sulle poche coperture disponibili. Cose indispensabili. Ma tutto ciò
provocherà solo, se tutto andrà bene, una crescita ancora lontana dalla piena
utilizzazione delle risorse produttive. E la conseguenza non potrà che essere
una disoccupazione
a doppia cifra che solo la propaganda di Matteo Renzi spera, a parole, di poter
combattere.
Non c’è soluzione alla crisi
europea, se non cambierà la politica economica tedesca. Se la Germania
non si deciderà a reflazionare la propria economia. Vale a dire ad utilizzare
quel surplus della bilancia dei pagamenti per rilanciare la sua domanda interna
e quindi favorire una ripresa sostenibile dell’intero continente. Grazie ad un
miglioramento del clima generale. Se questo non avverrà, la stessa politica
monetaria, nonostante gli sforzi di Mario Draghi,
non potrà avere gli effetti sperati. Le aziende tedesche potranno godere del
vantaggio di tassi di interesse negativi, in termini reali, mentre i
concorrenti saranno gravati da oneri aggiuntivi. Un freno devastante per i
possibili investimenti che dovrebbero rimettere in moto il processo di
accumulazione.
Ma
c’è un argomento ulteriore: il tasso di cambio. L’euro è troppo forte rispetto alle altre
monete. L’industria europea perde, pertanto, terreno rispetto ai
concorrenti esteri. E non parliamo solo delle economie emergenti, capaci
tuttavia di competere sempre di più nella fascia alta delle produzioni. La
forte ripresa americana si deve anche alla crescita delle sue esportazioni che
alimentano un tasso di sviluppo maggiore, riportando debito e deficit lungo un
sentiero sostenibile, grazie all’aumento del PIL.
Si
dirà: è da tempo immemorabile che questa situazione perdura. Per convincere la Bundesbank, il gabinetto occulto che domina la politica
economica tedesca, si sono dimostrate vane le pressione degli Stati
Uniti e degli organismi internazionali – il FMI innanzitutto – esercitate negli
anni passati. Ma allora tutto era reso meno drammatico da un clima
congiunturale positivo. Che lasciava solo agli specialisti la percezione di
quanto si poteva fare ed, invece, non veniva fatto.
A
sua volta, l’industria tedesca grazie alla delocalizzazione nei ex Paesi
appartenenti al blocco sovietico, poteva ottenere prodotti intermedi a prezzi
stracciati, che poi assemblava in loco. Il conseguente risparmio di costo
consentiva una politica dei prezzi assolutamente concorrenziale.
Per
averne una dimostrazione basti guardare ai fatturati dell’industria dell’auto.
Le grandi case automobilistiche europee – dalla ex FIAT alla Renault – non
battono un chiodo. Mercedes o BMW dominano i mercati, con sconti che arrivano
fino al 25 per cento dei prezzi di listino. Il tutto garantito dalla qualità
“made in Germany”.
Se
gran parte delle componenti è realizzata fuori dai confini nazionali, il
controllo è comunque rigoroso. Sono i tecnici tedeschi che sovraintendono alla
produzione ed accettano solo manufatti che ne rispettano gli standard.
Che
si sia trattato di un modello, perfido quanto si vuole, ma efficiente è fuori
discussione. Per consolidarlo negli anni, i tedeschi dovevano poter contare,
soprattutto, sull’appoggio francese. Alle insidie dei confini orientali – non
solo la vecchia DDR di allora, ma la Russia di Putin di oggi – non si poteva
contrapporre una Germania disarmata.
La
Francia, con la sua “force de frappe”, assicurata dal possesso dell’atomica,
poteva pertanto essere il deterrente immediato.
Da
integrare con il sostegno di tutto l’Occidente: Stati Uniti in testa. Si spiega
così la cosiddetta “entente cordiale”: quell’asse franco-tedesco, che ha sempre
scandito gli equilibri europei. Che per la Germania ha avuto, ovviamente un
costo, ma era il minimo da sopportare.
Non
si dimentichi la
grande crisi del ’92.
Allora il crollo del sistema
monetario europeo, episodio in cui le
responsabilità tedesche furono rilevanti, comportò la crisi delle principali monete – lira,
sterlina, peseta ed escudo portoghese subirono una svalutazione devastante – ma
il franco francese fu salvato, grazie all’intervento della Bundesbank. Che una
volta tanto si dimostrò più che generosa.
Che
cos’è cambiato nel frattempo? Quasi tutto. La crisi dell’intero continente ha
reso evidente i tratti più odiosi di quell’egoismo nazionale che ha scaricato sugli altri
Paesi le proprie contraddizioni non risolte. Non è solo la Grecia che protesta
innalzando cartelli che ricordano il passato nazista.
Nelle
altre capitali europee il peso di quella supremazia, senza egemonia, è
sopportato con crescente malessere, che l’elettorato interpreta in chiave
anticomunitaria. Populismo? Come affermano i benpensanti. Ci sarà anche quello.
Ma
chi è in grado di tracciare il confine tra presunti irrazionalismi – questo
dovrebbe esserne il lato più oscuro – e critica legittima in difesa dei propri
interessi nazionali e della propria comunità?
Lo
si vada a dire agli stessi francesi: dopo il fallimento di Sarkozy
prima e di Hollande
poi. Se nelle ultime elezioni il “fronte interno tedesco” è crollato a
vantaggio delle opposizioni, cosa dovrebbero fare gli italiani, che da Angela Merkel non solo non hanno ottenuto
alcunché, ma ne hanno subito i diktat e l’ingiustificato dileggio?
IL MATTINALE
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